“You seek truth? I seek beauty. We all have our weaknesses.”
Dorian Gray

Quando l’horror diventa arte

Nel mare delle serie horror contemporanee, poche sono riuscite a imporsi come Penny Dreadful. Creata da John Logan e prodotta da Sam Mendes (quello di American Beauty e Skyfall, per intenderci), questa serie andata in onda su Showtime tra il 2014 e il 2016 è un ibrido affascinante e colto. Non è solo un racconto dell’orrore: è un’opera teatrale spettrale, un collage letterario, una sinfonia gotica su amore, dolore e identità.

Cos’è un “Penny Dreadful”?

Il titolo non è casuale: i penny dreadfuls erano pubblicazioni popolari nell’Inghilterra vittoriana, vendute per un penny, piene di racconti sensazionalistici, crimini e orrore. Ma la serie di Logan va ben oltre la semplice rievocazione pulp: prende le icone della letteratura gotica – Dracula, Frankenstein, Dorian Gray, licantropi e streghe – e le infila in un racconto profondamente umano e tragico, ambientato in una Londra plumbea e viscerale.

Vanessa Ives: il cuore oscuro della serie

Vanessa Ives (Eva Green) è la vera protagonista, ed è semplicemente straordinaria. Una medium tormentata, posseduta, perseguitata dal male ma anche carica di fede, desiderio e senso del sacrificio. La performance di Eva Green è una delle più intense viste in TV negli ultimi decenni: selvaggia, elegante, vulnerabile e feroce.

Vanessa è l’eroina tragica per eccellenza, che cammina in bilico tra dannazione e redenzione, tra l’essere strumento di Dio e sposa del Diavolo. Tutto ruota attorno a lei. Tutto le chiede un prezzo.

I personaggi: mostri con l’anima

Quello che rende Penny Dreadful unica è la sua compassione verso le creature che altri racconti trattano da villain. Qui, i veri “mostri” sono i più umani:

  • Victor Frankenstein: giovane, idealista, brillante, ma sempre in fuga dalla responsabilità delle sue creazioni.
  • La Creatura (John Clare): un essere fatto di pezzi di cadavere, sì, ma anche di poesia, dolore e solitudine immensa.
  • Dorian Gray: immortale, narcisista e perverso, eppure anche terribilmente annoiato da sé stesso.
  • Ethan Chandler: pistolero americano con un segreto licantropico, segnato da senso di colpa e lealtà.
  • Sir Malcolm Murray: patriarca distrutto, alla ricerca della figlia perduta (Mina, sì, quella di Dracula), in guerra con sé stesso più che con i demoni.

Una Londra viva, gotica e marcia

L’ambientazione è una delle protagoniste silenziose: nebbie, vicoli, chiese vuote, teatri decadenti, bordelli opulenti e cimiteri dimenticati. La Londra di Penny Dreadful è tanto affascinante quanto marcia, un luogo in cui ogni angolo ha una storia da raccontare, spesso scritta col sangue. La fotografia è pittorica, teatrale, fatta di ombre profonde e luci calde come candele. Ogni inquadratura è un quadro pre-raffaellita venato di incubo.

La serie non ha paura di esplorare temi complessi, quasi sempre legati alla repressione vittoriana:

  • Il dualismo tra bene e male: non in chiave moralista, ma come scontro interno ad ogni personaggio.
  • La sessualità: onnipresente, fluida, ora liberazione, ora prigione.
  • La fede: Vanessa è costantemente in dialogo con Dio e col Diavolo.
  • L’identità: cosa ci definisce davvero? Il nostro passato, il nostro corpo, il nostro dolore?

Ogni episodio è un piccolo trattato di letteratura gotica, ma anche di psicoanalisi freudiana, con echi di Lacan, Jung e Dostoevskij.

Le stagioni: un crescendo lirico

  • Stagione 1: l’introduzione, elegante e misteriosa. Presenta i personaggi e pone le basi del dramma.
  • Stagione 2: l’apice. Con le streghe e Madame Kali (eccezionale Helen McCrory), la serie raggiunge toni quasi operistici.
  • Stagione 3: più spirituale, più intima, segna l’inizio della fine. Vanessa affronta finalmente il suo destino, e il dolore diventa sublime.

Il finale? Tragico, poetico, perfetto nella sua imperfezione. Non tutti lo hanno amato, ma è coerente con l’ethos della serie: ogni bellezza ha un prezzo.

La bellezza dell’orrore

Penny Dreadful è l’esempio perfetto di come l’horror possa essere alta narrativa. La serie è elegante, dolorosa, piena di cultura (Shakespeare, Milton, Blake, Shelley…), eppure profondamente viscerale. Ogni dialogo è cesellato, ogni sguardo ha un peso.

Non si guarda per i colpi di scena. Si guarda per immergersi, per soffrire con i personaggi, per respirare l’odore della pioggia su una tomba vittoriana, per sentire l’eco di un verso recitato da una creatura senza volto ma con l’anima.

Come un romanzo perduto, trovato in soffitta

Penny Dreadful non è una serie per tutti. È una lettera d’amore al gotico, una tragedia shakespeariana travestita da horror, un’opera che parla di mostri solo per parlare, in fondo, di noi. Se ami Mary Shelley, Bram Stoker, Wilde, Poe, se ti perdi nei cimiteri letterari… questa serie ti chiama. E non ti lascerà più.

PENNY DREADFUL: CITY OF ANGELS

DEMONI, STRADE E RAZZISMO NELLA LOS ANGELES DEL 1938

“All mankind needs to be the monster he truly is… and he will be.”
Magda

Non un vero seguito, ma un’eredità spirituale

Quando Penny Dreadful si chiuse con il suo finale poetico e tragico nel 2016, in molti pensavano che quel sipario rosso fosse stato calato per sempre. E invece, nel 2020, John Logan torna a evocare spettri e simbologie con Penny Dreadful: City of Angels. Ma attenzione: non si tratta di un vero sequel, né di una continuazione narrativa. È una “discendenza spirituale”, una creatura diversa, figlia dello stesso oscuro respiro.

Via la Londra vittoriana. Dentro la Los Angeles del 1938, una città divisa, in fermento, e intrisa di razzismo, politica corrotta e credenze millenarie.

Una città sull’orlo dell’abisso

City of Angels ci catapulta in un’America che si dibatte tra modernità e oscurantismo. Siamo alla vigilia della Seconda guerra mondiale, in una Los Angeles che splende di luci elettriche ma è segnata da tensioni razziali, dalla crescente influenza del nazismo americano e dalla brutalità della polizia.

In questo crogiolo culturale e sociale, si muovono i protagonisti:

  • Tiago Vega (Daniel Zovatto), primo detective messicano-americano del LAPD, uomo in bilico tra due mondi;
  • Lewis Michener (Nathan Lane), veterano ebreo della polizia, acuto e disilluso;
  • E soprattutto Magda (Natalie Dormer), il vero fulcro soprannaturale della serie.

Magda e Santa Muerte: due facce dell’aldilà

Al centro del conflitto sovrannaturale ci sono due figure mitologiche:

  • Magda: demone mutaforma, incarnazione del caos e della manipolazione. Natalie Dormer è una forza della natura, interpretando più personaggi – dalla fredda Alex alla seducente Elsa – tutti parte del disegno oscuro per dimostrare che l’uomo, in fondo, è malvagio per natura.
  • Santa Muerte: la santa della morte, adorata nel folklore messicano. Silenziosa e compassionevole, rappresenta la morte come liberazione e ciclo eterno, in netto contrasto con la distruzione caotica di Magda.

Questa dualità è l’anima metafisica della serie: una battaglia non tra angeli e demoni, ma tra visioni opposte della morte e dell’umano.

Nuove maschere, vecchie anime

Se Penny Dreadful era una danza decadente tra mostri e poesia, City of Angels è un noir politico impregnato di soprannaturale. Eppure, qualche volto familiare ritorna:

  • Rory Kinnear, che nella serie originale era la Creatura di Frankenstein, qui interpreta Peter Craft, un pediatra tedesco apparentemente pacifico, ma con legami inquietanti col Terzo Reich.

Non è solo un omaggio, è un ponte tra due mondi: l’orrore interiore resta, ma cambia costume.

Temi: il mostro siamo noi

La serie si carica di un peso tematico importante:

  • Il razzismo sistemico: la comunità messicano-americana è costantemente oppressa, minacciata da una polizia violenta e da speculazioni edilizie che vogliono cancellare interi quartieri.
  • La politica come veleno: la penetrazione nazista negli Stati Uniti non è fantascienza: è storia. City of Angels lo mostra con inquietante precisione.
  • Religione e mito: la spiritualità indigena e cattolica si fonde con un’iconografia quasi teatrale, dando spessore simbolico a ogni scelta narrativa.
  • L’identità ibrida: Tiago è l’incarnazione del conflitto tra due culture, tra radici e istituzione, tra ciò che si è e ciò che si deve essere.

Estetica e atmosfera: il fascino sinistro del sud-ovest

Abbandonato il gotico vittoriano, la serie abbraccia l’estetica del noir anni ’30:

  • Auto d’epoca, locali jazz, abiti impeccabili.
  • Luci basse, colori sabbiosi, tramonti rossi come presagi.
  • Un senso di inquietudine costante, sottolineato da una colonna sonora vibrante di tensione e malinconia.

La regia è elegante ma spietata, e ogni episodio trasuda ambizione visiva.

Un’idea ambiziosa, un cammino spezzato

City of Angels aveva tutte le carte per diventare una nuova opera di culto, ma nonostante la ricchezza tematica e una performance magnetica di Dormer, la serie è stata accolta con reazioni miste.

Molti hanno criticato il ritmo lento, la dispersione narrativa e il confronto (inevitabile) con la serie madre, troppo ingombrante per essere superato.

Risultato: cancellazione dopo una sola stagione. Il racconto si spezza, lasciando promesse non mantenute. Ma non privo di valore.

Un racconto perduto nel vento di Santa Ana

Penny Dreadful: City of Angels non è perfetto. Ma è coraggioso. È uno sforzo potente per raccontare un’America oscura e spesso dimenticata, usando il linguaggio dei miti, dei demoni e delle tensioni vere.

Non ci sono vampiri qui, né streghe. Ma ci sono poliziotti corrotti, nazisti americani, santi silenziosi e demoni che parlano con mille volti. In fondo, il terrore vero non viene dai mostri… ma dagli uomini.