Uscito nel 1987 e diretto da Alan Parker, Angel Heart – Ascensore per l’inferno è uno di quei film che ancora oggi conservano un alone di mistero, culto e inquietudine. A metà tra il thriller investigativo e l’horror esoterico, è un’opera che scava negli angoli più oscuri dell’animo umano, dove la colpa e il destino si intrecciano fino a diventare indistinguibili. Con un cast sorprendente e una messa in scena febbrile, il film è un esempio raro di cinema che osa contaminare i generi per raccontare qualcosa di più profondo: la dannazione personale.

Un detective, un nome, un contratto

Harry Angel è un detective privato della New York degli anni Cinquanta. È un uomo cinico, disilluso, immerso nel fumo, nella pioggia e nell’ombra della metropoli. Viene assunto da un misterioso individuo, Louis Cyphre, che lo incarica di rintracciare un certo Johnny Favorite, cantante scomparso anni prima dopo essere stato internato in un ospedale psichiatrico. Il contratto sembra semplice, ma ben presto Angel si trova invischiato in una spirale di omicidi, rituali voodoo, segreti repressi e, soprattutto, una verità che si rifiuta di guardare in faccia.

Più si avvicina alla verità, più Angel perde se stesso. L’indagine diventa una discesa vertiginosa negli inferi della sua identità, del suo passato, della sua anima.

Il patto fa l’uomo, o lo distrugge

L’intera struttura del film è un gioco di specchi tra apparenza e sostanza, dove il noir classico – con le sue indagini, i sospetti, le piste ambigue – viene lentamente assorbito da un impianto horror-esoterico. La regia di Alan Parker è estremamente controllata ma non priva di momenti viscerali. La New York nebbiosa si fonde con le paludi della Louisiana in un crescendo di tensione che ha il sapore di un incubo rituale, carnale, ancestrale.

Robert De Niro, nei panni dell’ambiguo Louis Cyphre, è una presenza scenica inquietante, raffinata, elegante e sinistra. La scelta del nome non è casuale: Cyphre è un gioco fonetico su “Lucifer”. Ma il vero centro emotivo e narrativo del film è Mickey Rourke, nel ruolo forse più tormentato della sua carriera. Il suo Harry Angel è un uomo che scopre di non essere chi credeva, e che sta pagando un debito molto più antico di quanto possa immaginare.

Lisa Bonet, allora famosa per I Robinson, rompe ogni stereotipo nel ruolo di Epiphany Proudfoot, figura simbolica, sensuale e oscura, legata al voodoo e al mistero dell’identità perduta.

La colpa è scritta nel sangue

Ciò che rende Angel Heart un film memorabile non è solo l’intreccio o il colpo di scena finale, ma il senso di inevitabilità che lo pervade. La narrazione è costruita come una confessione rovesciata: Angel non sa di dover confessare, ma lo spettatore lo intuisce. Ogni incontro, ogni sogno, ogni dettaglio – persino il suono dell’ascensore – suggerisce che qualcosa di terribile si sta avvicinando. Il male non è esterno, ma già radicato nel protagonista.

Il film è anche una potente meditazione sul peccato, sull’identità come finzione costruita per sfuggire al trauma, sulla memoria repressa come atto di autodifesa spirituale. L’horror non deriva da ciò che accade, ma da ciò che si è già fatto.

Un film troppo avanti per i suoi tempi

All’uscita, Angel Heart fu accolto con reazioni contrastanti. La critica ne elogiò l’ambizione e l’estetica, ma il pubblico rimase spiazzato da alcune sequenze forti, dal ritmo cupo e dal finale che ribaltava ogni punto di riferimento. Alcune scene – in particolare quella di sesso mistico tra Rourke e Bonet – sollevarono polemiche, censura e resistenze. Ma con il passare degli anni, il film ha acquisito lo status di cult. È oggi riconosciuto come uno dei più coraggiosi e riusciti esperimenti di contaminazione tra noir, horror e dramma psicologico.

Angel Heart – Ascensore per l’inferno è più di un film. È un viaggio. Un’indagine nell’inconscio, una riflessione sulla colpa e sull’anima, un’opera che non ha paura di sporcarsi le mani nella melma dell’umano. È la prova che l’orrore più profondo non abita nei mostri, ma nelle verità che siamo disposti a nasconderci pur di sopravvivere a noi stessi.

Simboli, letteratura, inferni personali

Le radici occulte di un noir esistenziale

Angel Heart è un film che dialoga silenziosamente con una lunga tradizione letteraria e iconografica, innestandosi nel solco di opere in cui la discesa negli inferi dell’anima coincide con il percorso investigativo o spirituale del protagonista. Non è un caso che il film, pur partendo da un canovaccio da hard-boiled metropolitano, evochi atmosfere e archetipi molto più antichi, radicati nel mito, nella religione e nella letteratura gotica.

L’eco più evidente è dantesca. L’intera vicenda può essere letta come una commedia nera, con Harry Angel che compie una discesa simbolica tra i gironi del proprio passato, guidato da un Virgilio pericolosamente simile a Lucifero stesso. Il finale, ambientato in un ascensore che scende, è la chiosa perfetta: un contrappasso inesorabile, una dannazione non inflitta ma riconosciuta.

Altre suggestioni letterarie richiamano Edgar Allan Poe, nei suoi racconti in cui l’identità si dissolve sotto il peso della colpa (William Wilson, Il cuore rivelatore), o Lovecraft, per il senso opprimente di una verità cosmica che strappa le maschere all’esistenza. C’è anche un’affinità con Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, nella figura di un uomo che ha siglato un patto oscuro pur di mantenere un’identità illusoria, e che viene infine travolto dal proprio riflesso.

L’intero simbolismo voodoo che attraversa il film — dai rituali alle ossa, dal sangue al fuoco — non è mai trattato in modo folkloristico o esotico, ma come lingua sacra dell’inconscio, dove il corpo diventa scrittura e la magia un atto di memoria ancestrale.

L’estetica dell’oscurità: tra Friedkin, Polanski e Lynch

Visivamente, Angel Heart anticipa e dialoga con altri capolavori del cinema del perturbante. Il contrasto tra la New York fredda, grigia, geometrica, e il sud viscerale, umido, superstizioso, crea una tensione visiva che ricorda L’esorcista di William Friedkin, ma anche Rosemary’s Baby di Polanski, dove la città è solo la superficie di un male nascosto.

Alan Parker costruisce immagini che restano impresse come visioni: specchi che non riflettono, mani insanguinate, occhi spalancati nel buio, dettagli che ritornano come segni di una predestinazione crudele. Il sangue che gocciola da una lampadina, la gallina sgozzata durante il rito, l’ascensore che scende nel silenzio. Ogni elemento è simbolo, presagio, traccia.

La colonna sonora, avvolgente e ansiogena, amplifica la sensazione di essere prigionieri di un sogno malato. In certi momenti si ha quasi l’impressione di essere all’interno di un film di David Lynch, con la differenza che qui la rivelazione arriva, e non lascia scampo.