Un’opera di guerra senza eroi
Con Civil War, Alex Garland (già regista di Ex Machina e Annihilation) abbandona la fantascienza per abbracciare un realismo disturbante, quasi documentaristico, pur mantenendo intatta la sua ossessione per la crisi dell’identità e la disintegrazione del senso collettivo. Il film non racconta una guerra civile futura o possibile, ma una guerra già in corso, come se l’America si fosse svegliata un giorno e avesse scoperto che non è più unita.
Il viaggio verso il cuore del caos
Il film segue un gruppo di giornalisti che cerca di raggiungere Washington, D.C., attraversando uno scenario devastato da una guerra civile in pieno svolgimento. Non siamo in un passato remoto né in un futuro post-apocalittico. Siamo in un oggi possibile, in un’America frammentata, dove le istituzioni sono crollate e le ideologie non hanno più nomi ma solo colori e armi.
I protagonisti sono testimoni, non combattenti. Ma il loro sguardo, e le loro lenti, diventano il nostro unico filo conduttore in una nazione che ha smarrito se stessa.
Il punto di vista: il giornalismo come ultimo specchio
La narrazione si focalizza sul gruppo di reporter composto da Lee (Kirsten Dunst), una fotoreporter esperta e disillusa, Joel (Wagner Moura), un giornalista d’azione più temerario che cinico, e Jessie (Cailee Spaeny), una giovane fotografa che rappresenta l’innocenza perduta.
Il loro viaggio è anche una discesa nell’inferno del “giornalismo embedded”: osservano, scattano foto, registrano. Ma la domanda resta sospesa: quanto può essere neutrale un testimone in mezzo al sangue?
Il film mette in scena un’etica professionale in frantumi, dove il dovere di documentare si scontra con la nausea, il pericolo, e la tentazione di scegliere una parte.
Un’America fratturata, ma mai nominata
Garland sceglie di non spiegare. Mai. Non ci sono lunghi dialoghi politici, né panoramiche geopolitiche. La guerra è presentata come fatto, non come evento da capire. Non si parla di repubblicani o democratici, di Texas o California, di razze o religioni. La guerra civile americana del film è volutamente vaga, e proprio per questo inquietante: ogni spettatore può proiettarvi sopra le sue paure.
In questo modo, Civil War diventa una parabola sulla fine del patto sociale, sulla dissoluzione della fiducia tra cittadini e Stato, tra parola e realtà. È un’America in cui le ideologie sono collassate sotto il peso del risentimento.
Il ritmo e lo stile: tensione senza tregua
Il film è costruito come un road movie bellico. Ogni tappa del viaggio rivela una nuova aberrazione, un nuovo orrore, un nuovo livello di decadenza morale.
- Lo stile è secco: la camera resta vicina ai volti, ai corpi, ai dettagli. Non ci sono grandi spiegazioni, solo gesti, scelte, spari.
- Il sonoro è fondamentale: silenzi improvvisi, scoppi assordanti, dialoghi ridotti all’essenziale.
- La fotografia alterna la bellezza naturale degli Stati Uniti con la distruzione urbana. Garland usa l’estetica per sottolineare il contrasto tra ciò che era e ciò che resta.
La guerra come discesa interiore
La guerra civile che racconta Garland è prima di tutto psicologica. I personaggi perdono progressivamente ogni punto fermo. La giovane Jessie è lo specchio di questo cambiamento: da osservatrice timida a testimone attiva, poi a sopravvissuta muta.
Lee, invece, è già oltre la soglia: ha visto troppo, ha smesso di credere. Ma proprio per questo continua a guardare, a fotografare. Il suo gesto meccanico, la fotocamera al volto, è il tentativo disperato di non crollare del tutto.
Il finale: una catarsi senza redenzione
Senza spoiler, possiamo dire che Civil War non offre conforto. Non ci sono vincitori. Non ci sono grandi discorsi. Solo immagini, silenzi, occhi che guardano attraverso il mirino e non sanno più se stanno documentando la fine o l’inizio di qualcosa di peggiore.
Garland chiude il film senza chiudere il significato. Non c’è morale, solo l’eco di una domanda: quando una società smette di essere una comunità? E quando chi osserva il crollo diventa parte del crollo stesso?
Temi principali
- L’identità americana come mito che si sbriciola
- La crisi del giornalismo e del linguaggio
- La spettacolarizzazione della violenza
- Il crollo dell’empatia come sintomo terminale
- La paura del presente, non del futuro
Un incubo lucido
Civil War è uno dei film più disturbanti e attuali degli ultimi anni. Non perché mostra un futuro improbabile, ma perché racconta un presente emotivamente plausibile. È un film che non offre rifugio: ti accompagna fino al bordo della frattura e ti lascia lì, a guardare giù.
Alex Garland ha diretto un film che non vuole piacere. Vuole turbare. Vuole che lo spettatore si domandi non “che cosa succederà all’America”, ma “che cosa sta succedendo dentro di noi”.
LEE SMITH
Interpretata da Kirsten Dunst
L’occhio che non può più distogliere lo sguardo
Lee è una fotoreporter veterana. Ha visto tutto, o almeno così crede. Il suo volto è già scavato dalla guerra quando il film comincia. Non parla molto. Scatta. Registra. Immortala. È l’archetipo della testimone che non è più neutrale, ma nemmeno pienamente coinvolta. Un corpo in prima linea, ma con l’anima nascosta da qualche parte, forse irraggiungibile.
Analisi psicologica:
Lee è una figura post-traumatica. Non mostra emozioni perché non può più permetterselo. La macchina fotografica è la sua barriera, il suo filtro percettivo. Ogni scatto è un modo per restare viva senza crollare. È consapevole di ciò che fa: non documenta per salvare il mondo, ma per non sparire completamente dentro il caos.
Simbolismo:
Rappresenta la coscienza congelata. È l’America che ha guardato troppo a lungo le sue ferite senza curarle. È l’umanità sopravvissuta, ma non salva.
JESSIE CULLEN
Interpretata da Cailee Spaeny
L’innocenza che si frantuma sotto il peso della realtà
Jessie è giovane, entusiasta, apparentemente ingenua. All’inizio è “l’apprendista”. Vuole imparare. Guarda Lee con ammirazione. Ma la sua trasformazione è la più brutale: da ragazza con la macchina fotografica a testimone diretta dell’orrore. È un personaggio tragico perché cambia in fretta, troppo in fretta. Non per crescita, ma per sopravvivenza.
Analisi psicologica:
Jessie è lo spettatore che non può più restare passivo. All’inizio cerca di seguire regole, codici, distanze. Ma la guerra non lascia spazio per le istruzioni. Il trauma la plasma, e lei accetta di diventare parte del racconto, pur non sapendo ancora se lo farà con empatia o con disincanto.
Simbolismo:
È l’America giovane, quella che voleva credere, quella che pensava di avere tempo. Jessie è la coscienza che si sveglia nel mezzo di un incubo e che smette di chiedersi cosa sia giusto. Scatta perché non può più permettersi di non scattare.
JOEL
Interpretato da Wagner Moura
Il cinico carismatico, o il manipolatore con un cuore che batte ancora
Joel è un giornalista più estroverso, più avventuroso, apparentemente più leggero. Ma la sua leggerezza è una corazza. Si muove tra militari, checkpoint e sparatorie con l’aria di chi ha già accettato che nulla ha senso. Eppure protegge Jessie. Si affeziona a Lee. È un personaggio ponte, ironico ma tragico.
Analisi psicologica:
Joel ha anestetizzato il senso morale con il cinismo. La battuta pronta serve a coprire l’angoscia. A differenza di Lee, non ha congelato le emozioni: le ha tramutate in performance. Ma dietro la teatralità, è ancora vivo. E proprio per questo, vulnerabile.
Simbolismo:
È la parte della società che cerca di sopravvivere con intelligenza, che si muove tra le rovine come un funambolo. È il commentatore stanco che però, quando il sangue si fa troppo denso, si ferma a guardare davvero.
SAMMY
Il vecchio reporter, osservatore defilato
(Attenzione: in alcuni tagli del film il personaggio ha un ruolo minore, ma è fondamentale nella costruzione del tono)
La memoria che si spegne, ma non vuole dimenticare
Sammy è il veterano nel vero senso del termine. È stanco, è lento, è umano fino all’osso. Non corre. Non cerca la foto perfetta. Ma quando parla, ogni parola pesa.
Analisi psicologica:
Sammy è la voce della memoria. È quello che ha visto le guerre vere, quelle che avevano cause. La sua lentezza non è fragilità, ma rispetto. Rispetto per le vite che si spengono senza che nessuno chieda loro chi fossero.
Simbolismo:
È il giornalismo pre-digitale. È l’uomo che crede ancora che osservare e raccontare serva a qualcosa. E che, forse, ha capito che ormai non è più vero. Ma continua, comunque.
L’America fuori campo
(Ovvero: i soldati, i ribelli, i civili)
La guerra in Civil War non è combattuta da protagonisti, ma da comparse che diventano simboli viventi. Miliziani, soldati regolari, civili in fuga, esecuzioni sommarie. Nessuno è definito in modo netto. La linea tra vittima e carnefice è confusa.
Ogni volto che i protagonisti incontrano è un frammento del crollo:
- Il soldato che si fa fotografare mentre umilia un prigioniero.
- Il comandante che parla con calma prima di un’esecuzione.
- La bambina che non piange più.
- Il civile che spara per autodifesa e diventa a sua volta bersaglio.
Simbolismo collettivo:
Sono l’America fratturata. Ognuno rappresenta un’ideologia che si è consumata. Nessuno è davvero “con noi” o “contro di noi”. Sono esseri umani ridotti a ruoli in un incubo condiviso.
Una mappa dell’anima durante il collasso
Civil War non è un film di personaggi “simpatici” o “amabili”. È un racconto su esseri umani costretti a scegliere se documentare, sopravvivere o sentire. O, in alcuni casi, tutte e tre le cose.
I protagonisti non vincono. Non salvano nessuno. Ma ci offrono uno sguardo nudo, quello che resta quando la nazione, la società, la coscienza, si sbriciolano.
CIVIL WAR (2024) – L’occhio nel caos senza volto
Alex Garland costruisce un’opera in cui i protagonisti sono fotografi e giornalisti, testimoni quasi impotenti della dissoluzione dell’America. Non hanno potere sulle dinamiche belliche. Possono solo decidere cosa guardare e quando premere il pulsante. E questa scelta li definisce.
Lee e Jessie non combattono, ma sopportano. Sono lenti vive, corpi-archivio, anime dilaniate tra empatia e dissociazione. Garland non offre retorica, ma una visione asciutta e inquieta della testimonianza come gesto disperato.
THE KILLING FIELDS (1984) – La guerra vista da dentro, e da fuori
Il film racconta l’amicizia tra Dith Pran, giornalista cambogiano, e Sydney Schanberg, corrispondente del New York Times durante il genocidio dei Khmer Rossi.
Schanberg rappresenta il testimone occidentale, inizialmente idealista, poi colpevolmente passivo. Pran è il testimone sacrificale: non può scappare, deve vivere ciò che Schanberg osserva da lontano.
Connessione con Civil War:
Come in Civil War, anche qui il giornalismo viene messo in discussione. Testimoniare basta? Pran sopravvive per raccontare. Ma a quale prezzo? Il fotografo può mostrare l’orrore, ma non lo ferma.
SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA (1975) – L’obiettivo come atto di complicità
In un contesto radicale e disturbante, Pasolini mostra una società che si è completamente corrotta. Tutto è dominato da potere, sadismo, controllo. Nessun protagonista, solo carne e osservatori. Non c’è un vero testimone nel film, ma lo spettatore stesso diventa tale. Costretto a vedere. A guardare troppo.
Connessione con Civil War:
In entrambi i casi, guardare non è neutrale. La macchina da presa diventa uno specchio. Se scatti una foto dell’orrore, lo stai raccontando o lo stai congelando in eterno?
COME AND SEE (1985) – Il collasso attraverso gli occhi di un ragazzo
Capolavoro di Elem Klimov, narra l’invasione nazista in Bielorussia vista da Florya, un ragazzo che assiste alla distruzione del suo villaggio, della sua famiglia, e infine della propria innocenza.
È il testimone bambino, l’occhio puro che si spezza. Alla fine del film, il suo volto invecchiato non ha bisogno di parole. Ha visto tutto, e niente sarà mai più lo stesso.
Connessione con Civil War:
Jessie è la Florya del presente: inizia curiosa, esce muta. Ha visto troppo. Non ha salvato nessuno. Ma ora sa. Ed è cambiata.
THE YEAR OF LIVING DANGEROUSLY (1982) – Giornalismo, seduzione, responsabilità
Ambientato in Indonesia durante una rivoluzione, il film segue un giornalista australiano e il suo rapporto con il fotografo Billy Kwan, personaggio chiave, interpretato da Linda Hunt.
Billy osserva, analizza, riflette. È una figura tragica e morale: capisce il collasso prima degli altri, ma non può impedirlo.
Connessione con Civil War:
Il rapporto tra osservazione e morale. In entrambi i film, la fotografia non è mai neutra. È una scelta. E ogni scelta ha conseguenze.
NIGHTCRAWLER (2014) – Il testimone predatore
Qui il protagonista, Lou Bloom, non è un cronista etico. È un predatore mediatico che filma incidenti e violenze per venderli alle news locali. Manipola, sfrutta, amplifica.
Lou non cerca la verità. Cerca materiale. Ma resta pur sempre un testimone. Il più lucido e il più disumano.
Connessione con Civil War:
È l’altra faccia di Jessie: se l’empatia si spegne del tutto, resta solo la macchina. Lou è la fine del testimone umano. Quando documentare diventa consumare.
SHOAH (1985, Claude Lanzmann) – Il testimone come archivio vivente
Qui non c’è fiction. Solo testimonianza. Interviste ai sopravvissuti, alle vittime, agli esecutori. Nessun filmato d’archivio. Solo occhi che raccontano.
Lanzmann costruisce un monumento della testimonianza, dove lo sguardo è l’unico atto possibile dopo la catastrofe.
Connessione con Civil War:
Anche se molto diverso per forma, Shoah e Civil War condividono l’ossessione per ciò che resta da dire dopo la rovina. Quando non ci sono più parole, quando resta solo il volto, lo sguardo, lo scatto.
Guardare è agire, anche quando sembra passività
In tutti questi film, il “testimone del collasso” non è mai neutro. Che sia una fotoreporter americana, un ragazzo bielorusso, un giornalista indonesiano o un videomaker californiano, ogni scelta di guardare o non guardare è già un atto morale, e spesso anche politico.
Civil War si inserisce in questa genealogia con una forza nuova: non dà risposte. Non cerca giustificazioni. Mostra solo cosa succede quando chi guarda è anche costretto a vivere dentro ciò che guarda. Ed è lì che l’essere umano viene davvero messo alla prova.