In un’epoca in cui l’horror seriale tende spesso a smarrirsi tra ripetizioni e citazionismi svuotati di forza, Slasher si è imposto come un progetto fedele alla tradizione più pura del genere, senza però rinunciare a una propria identità. Creata da Aaron Martin e lanciata nel 2016, la serie si struttura in stagioni antologiche, ciascuna con una storia, ambientazione e cast differenti, ma unite da un filo rosso ben saldo: il ritorno del rito narrativo del massacro, dell’assedio, della punizione attraverso la violenza.
Slasher non si limita a riprendere il modello cinematografico nato negli anni Settanta e Ottanta, quello di Halloween e Venerdì 13 per intenderci. Lo rilegge, lo aggiorna e, soprattutto, lo espande. Invece di concentrarsi solo sulla corsa frenetica verso il prossimo omicidio spettacolare, la serie scava nei personaggi, ne esplora il passato, mette a nudo i peccati nascosti.
Il vero motore della narrazione non è mai soltanto la presenza del killer mascherato, ma la rivelazione di una comunità o di un gruppo che, sotto la superficie civile, nasconde ipocrisia, corruzione, crudeltà.
Esteticamente Slasher recupera un gusto visivo crudo, diretto, senza compiacimenti estetici gratuiti. La violenza, quando arriva, è brutale, disturbante, senza filtri: non spettacolo, ma punizione. Ogni omicidio ha un peso, ogni morte racconta qualcosa di preciso sulla vittima e sul carnefice.
In questo modo, Slasher si avvicina alla grande tradizione horror in cui la paura non nasce tanto dal sangue, ma dall’inevitabilità della giustizia oscura che il killer porta con sé.
Dal mistero gotico di The Executioner, alla claustrofobia sociale di Guilty Party, fino alla vendetta ancestrale di Solstice e al ritorno alle radici nella recente Ripper, ogni stagione riflette il bisogno di confrontarsi con i fantasmi della colpa, dell’ingiustizia, della vendetta. In ogni storia, il mostro esterno non è altro che la manifestazione finale dei mostri interiori che i personaggi hanno nutrito a lungo.
Slasher rappresenta oggi uno dei pochi esempi di come si possa ancora parlare di horror con serietà, senza rinunciare all’intrattenimento, ma senza tradire l’anima profonda del genere: quella che non ha paura di guardare il male negli occhi, senza scorciatoie, senza redenzioni facili.
In un panorama spesso affollato da prodotti che temono la propria oscurità, Slasher si erge come un monumento solido e sanguinante alla memoria del vero horror: quello che inquieta perché racconta verità scomode, quello che spaventa perché sa quanto poco serva per far crollare l’illusione della civiltà.
Stagione per stagione
Prima stagione: Slasher: The Executioner (2016)
La prima stagione si presenta come un omaggio consapevole al filone classico degli slasher anni Settanta e Ottanta, ma con una profondità narrativa che va oltre. Ambientata nella piccola città di Waterbury, la storia segue Sarah Bennett, una giovane donna tornata nel luogo natale dove i suoi genitori furono brutalmente assassinati anni prima da un serial killer mascherato noto come “The Executioner”.
La nuova serie di omicidi che si scatena non è casuale: il killer agisce seguendo i sette peccati capitali, punendo chi ha macchiato la comunità con colpe nascoste.
Il cuore di questa stagione è il confronto tra apparenza e verità: Waterbury è una comunità costruita su fondamenta di menzogne, omertà e peccati non espiati. L’assassino, come una figura da teatro medievale, diventa strumento di una giustizia primitiva, crudele e inesorabile.
Seconda stagione: Slasher: Guilty Party (2017)
Guilty Party sposta l’ambientazione in un campo estivo abbandonato, un luogo isolato dove il passato torna a reclamare vendetta. Un gruppo di adulti si ritrova per distruggere le prove di un crimine commesso molti anni prima: l’omicidio di una ragazza innocente.
Questa stagione si muove su due piani temporali, rivelando gradualmente le colpe e le meschinità dei protagonisti. Qui il killer non è un semplice vendicatore cieco, ma una manifestazione della memoria che non può essere sepolta.
Tematicamente, Guilty Party riflette sul peso del rimorso, sulla complicità morale e sull’impossibilità di cancellare il passato. In un ambiente ostile e isolato, la maschera sociale cade rapidamente, lasciando emergere la brutalità primordiale.
Terza stagione: Slasher: Solstice (2019)
Con Solstice, Slasher adotta una struttura narrativa ancora più ambiziosa: l’intera stagione si svolge nell’arco di dodici mesi, esplorando gli eventi che portano a una serie di omicidi durante il solstizio d’estate.
L’ambientazione è un complesso residenziale urbano, teatro di tensioni sociali, discriminazioni, indifferenza. I crimini sono collegati all’omicidio non risolto di un ragazzo, che tutti hanno visto subire violenze senza intervenire.
Solstice è una critica feroce all’apatia contemporanea, all’illusione di comunità che caratterizza la società moderna.
Qui l’assassino diventa il simbolo della rabbia repressa contro l’ipocrisia del vivere insieme senza prendersi responsabilità.
Quarta stagione: Slasher: Flesh and Blood (2021)
Flesh and Blood torna alle radici gotiche, raccontando la storia della famiglia Galloway, riunita su un’isola privata per partecipare a una brutale competizione voluta dal patriarca morente. Chi vince erediterà la fortuna della famiglia. Ma tra loro si aggira un assassino pronto a colpire.
Questa stagione affronta il tema della corruzione familiare, dell’avidità e della degenerazione del legame di sangue.
Ogni personaggio è spinto dall’avidità, dalla vendetta o dal rancore, e l’assassino diventa la mano che punisce una stirpe ormai marcia.
Il tono di Flesh and Blood è particolarmente cupo e crudele: qui non esistono innocenti, solo vittime e carnefici allo stesso tempo.
Quinta stagione: Slasher: Ripper (2023)
Ripper compie un salto temporale nel passato, ambientando la storia nella Londra vittoriana, in un quartiere povero dove un misterioso assassino, soprannominato “The Widow”, uccide membri dell’élite corrotta.
In questa stagione, Slasher si immerge nel gotico urbano, fondendo il mito di Jack lo Squartatore con una critica sociale feroce.
La città stessa è un personaggio vivente: sporca, corrotta, implacabile. Il killer agisce con una violenza rituale, punendo non solo individui, ma un intero sistema di oppressione e ipocrisia.
Ripper rappresenta la maturazione massima della serie: un horror che non è mai gratuito, ma profondamente intrecciato alla condanna di un’epoca marcia di ingiustizie.
Attraverso le sue stagioni, Slasher dimostra che l’orrore non ha bisogno di nuovi trucchi per essere efficace: basta avere il coraggio di raccontare la verità più scomoda.
Ogni stagione è un’esplorazione della colpa, della giustizia deviata, e del prezzo della sopravvivenza in un mondo dove nessuno è mai del tutto innocente.
In Slasher, il killer non è mai solo un motore narrativo.
Ogni figura assassina incarna concetti morali, sociali o psicologici.
Non esistono mostri fine a se stessi: ogni killer è il riflesso oscuro dei peccati collettivi che cerca di punire.
Ecco i principali volti del terrore che hanno segnato la serie.
The Executioner (The Executioner, Stagione 1)
Iconografia: Maschera medievale, tunica nera, grande ascia da carnefice.
Il primo killer della serie è forse quello più archetipico.
“The Executioner” richiama direttamente l’idea dell’antico boia, strumento impersonale di una giustizia suprema e implacabile.
Non uccide per vendetta personale, ma per punire secondo un codice preciso: i sette peccati capitali.
Ogni vittima viene giudicata e giustiziata come in una rappresentazione allegorica medioevale, dove l’orrore non è tanto nella brutalità fisica quanto nella logica inesorabile che guida la mano dell’assassino.
È la manifestazione dell’idea che la colpa non può essere nascosta né perdonata se non attraverso la sofferenza.
The Druid (Solstice, Stagione 3)
Iconografia: Maschera nera senza volto, abito anonimo, presenza muta e minacciosa.
Il “Druid” rappresenta la rabbia della comunità tradita, la vendetta cieca che nasce dall’indifferenza collettiva.
Dietro la figura muta si cela il grido soffocato di chi è stato ignorato, bullizzato, abbandonato.
La scelta di una figura così anonima e senza tratti distintivi amplifica l’idea che il killer potrebbe essere chiunque, che l’odio può germogliare ovunque nella società.
Il Druid punisce non tanto singoli crimini quanto l’apatia, l’omertà, la codardia morale di una comunità intera.
The Widow (Ripper, Stagione 5)
Iconografia: Velo da lutto nero, abito vittoriano, movenze lente e cerimoniose.
“The Widow” è forse il killer più sofisticato e simbolico di Slasher.
Ispirato alla Londra vittoriana e al mito di Jack lo Squartatore, The Widow non uccide per vendetta personale, ma come atto politico contro l’ipocrisia della classe dominante.
Ogni omicidio è una denuncia, una punizione rituale contro chi ha costruito il proprio benessere sulla miseria e sullo sfruttamento altrui.
Il lutto indossato come uniforme suggerisce che la città stessa è in lutto, che la giustizia mancata ha generato una nuova, spietata forma di giudizio.
L’idea del killer in Slasher
A differenza di molto horror contemporaneo, in Slasher l’assassino non è mai fine a se stesso.
Non è un’entità sovrannaturale, né un mostro inspiegabile: è sempre il prodotto delle stesse dinamiche sociali e psicologiche che distruggono i legami tra le persone.
In questo senso, ogni killer della serie è un giudice oscuro, una figura tragica e spietata che obbliga i personaggi – e attraverso di loro anche lo spettatore – a guardarsi allo specchio.
Il killer in Slasher non chiede di essere compreso.
Non cerca redenzione.
Pretende solo che venga riconosciuto il debito di sangue che l’ipocrisia, la codardia o l’avidità hanno contratto.
Attraverso le sue figure assassine, Slasher ha saputo riscrivere il concetto di killer seriale non più come semplice agente del caos, ma come vendicatore delle verità taciute, delle colpe rimosse.
In un genere che troppo spesso si limita alla spettacolarizzazione della morte, Slasher restituisce al killer il suo ruolo più antico: quello di giudice terribile, davanti al quale non si può barare.