C’è un tipo di film che non ti avvisa. Arriva, ti prende di sorpresa, e ti resta addosso. They Cloned Tyrone è uno di questi. All’apparenza è una commedia nera con sfumature fantascientifiche, un bizzarro esperimento che mette insieme estetica anni Settanta, ritmi da film blaxploitation e paranoie da romanzo distopico. Ma sotto la superficie liscia e colorata si nasconde qualcosa di più profondo. Una riflessione acida e lucida sul controllo, sulla ripetizione, sullo stato delle cose nel cuore d’America.

Siamo in un ghetto non meglio precisato, chiamato semplicemente The Glen. Un luogo chiuso, senza tempo, dove il presente si confonde con il passato. Qui vive Fontaine, un pusher con lo sguardo spento e i gesti ripetuti. Ogni giorno fa le stesse cose. Ogni giorno sopravvive. Fino a quando non viene ucciso. E si risveglia il giorno dopo, come se nulla fosse accaduto.

Da questo momento parte un’indagine che non ha nulla del classico noir. Fontaine si allea con Slick Charles, un protettore logorroico e paranoico, e Yo-Yo, una prostituta con l’animo da detective e la lingua affilata. I tre cominciano a scavare, e ciò che trovano è un complotto che ha dell’assurdo: nel sottosuolo del quartiere si nasconde un laboratorio governativo che clona gli abitanti, li controlla attraverso la musica, il pollo fritto, lo shampoo e la religione. Il sistema è letteralmente programmato per mantenere il quartiere nella stagnazione.

L’idea è folle, e proprio per questo funziona. Perché non è solo un gioco. È un’allegoria. They Cloned Tyrone parla della condizione afroamericana senza retorica, ma con una potenza simbolica feroce. Il clone diventa metafora della gentrificazione culturale, della perdita di identità, della ripetizione forzata. Il ghetto non è solo un luogo geografico: è un circuito chiuso dove la cultura viene riprodotta, svuotata e venduta a chi non può scappare.

La regia di Juel Taylor è precisa, ispirata, piena di riferimenti ma mai derivativa. Il film è pieno di colori saturi, neon, arredamenti vintage. Sembra ambientato in un mondo sospeso tra passato e futuro, dove tutto è stato congelato per volontà di qualcun altro. Il tempo, come i personaggi, è prigioniero.

Il cuore pulsante sono i protagonisti. John Boyega è strepitoso nel ruolo di Fontaine: duro, silenzioso, sempre sul punto di esplodere. Jamie Foxx si prende la scena ogni volta che apre bocca, trasformando Slick Charles in una figura grottesca ma tragicamente umana. Teyonah Parris dà a Yo-Yo l’intelligenza, l’umorismo e la grinta che servono per rompere il ciclo.

Ma il vero antagonista non è un uomo. È il sistema. È il progetto. È quella voce metallica che dà ordini, quel laboratorio nascosto sotto i parrucchieri e le chiese, quel meccanismo che impedisce alla comunità di cambiare. È la metafora di un’America che crea i suoi margini e poi li colpevolizza. Che prende la cultura black, la clona, la riproduce, ma non la lascia mai libera.

Il film non offre risposte semplici. È satirico ma inquietante. È divertente ma amaro. Rievoca film come Get Out, Sorry to Bother You, The Manchurian Candidate, ma li rimescola con qualcosa di suo, un’urgenza nuova, una rabbia che non grida ma si fa sentire.

Il finale è una beffa perfetta. Chi è davvero Fontaine? Cosa significa essere se stessi in un mondo che ti programma? E soprattutto: se riesci a rompere il ciclo, cosa ti aspetta fuori?

Nel cinema di genere la metafora è spesso un modo per parlare di ciò che fa paura. Nel caso di They Cloned Tyrone, la paura non è quella di un mostro, ma di un meccanismo. Il film di Juel Taylor è un’opera stratificata, che sotto i toni da blaxploitation psichedelica nasconde un linguaggio simbolico preciso. Ogni elemento, ogni oggetto, ogni ambiente ha una funzione che va oltre il puro racconto. È un film costruito per il doppio senso, dove la superficie è una trappola e il vero significato vive in profondità.

Il primo simbolo chiave è il quartiere stesso, The Glen. Un luogo chiuso, circolare, senza uscite. La vita si ripete, ogni giorno sembra lo stesso. Le attività non cambiano, le persone non si muovono. Siamo in un limbo. Non è solo una rappresentazione del ghetto urbano, ma della ripetizione ciclica in cui vengono imprigionate intere comunità. La povertà non è un evento. È una struttura. E The Glen è la sua versione narrativa.

Il secondo elemento ricorrente è il pollo fritto, distribuito da una catena chiamata Got Damn Chicken. In una scena chiave, i personaggi si rendono conto che mangiando quel pollo si comportano in modo strano, come se fossero sotto effetto di una droga. Il fast food non è solo un prodotto: è uno strumento di controllo. Il pollo, simbolo culturale spesso caricaturale nella rappresentazione dei neri americani, diventa qui un dispositivo che alimenta lo stereotipo e lo consolida. È la cultura alimentare usata come arma, come mezzo per mantenere l’inerzia sociale e psicologica.

Accanto al cibo, anche il parrucchiere assume un ruolo ambiguo. Spazio di comunità, di cura, di rituale, viene mostrato come uno dei luoghi dove il sistema si insinua per programmare i cittadini. Cosa vuol dire? Che il controllo passa per ciò che è intimo, per ciò che viene vissuto come familiare. Il controllo non si impone dall’alto. Si nasconde in ciò che si ama.

Altro simbolo potente è la musica, in particolare la ripetizione forzata di alcuni motivi o frequenze. Ci sono momenti in cui si percepisce un suono strano, un loop sonoro che sembra orientare il comportamento delle persone. È una chiara allusione alla manipolazione subliminale, ma anche alla ripetizione culturale. Quando una comunità ascolta sempre lo stesso ritmo, lo stesso tono, lo stesso messaggio, è più facile che si adatti a uno schema. La musica non è più espressione. Diventa contenimento.

Il film insiste anche sul tema del clonaggio, naturalmente, che non è mai spiegato in chiave scientifica. È più metafora che tecnologia. I cloni sono tutti uguali, vestono allo stesso modo, parlano allo stesso modo, vivono la stessa giornata. Il clone è il cittadino ideale per chi governa senza farsi vedere: non si ribella, non sogna, non cambia. È funzionale. È prevedibile. Ma il punto più sottile del film è che i cloni non si distinguono dai veri abitanti del quartiere. E quindi la domanda è un’altra. Chi è il clone? E chi decide chi è autentico? È un interrogativo che sposta il film sul piano filosofico. L’originale è chi si ripete, o chi rompe il ciclo?

Un simbolo quasi invisibile ma centrale è quello della porta nascosta. Ci sono passaggi segreti ovunque. Dietro il club, sotto il salone, nei corridoi di cemento. Ogni spazio quotidiano può aprirsi su un laboratorio. Questo significa che il reale è sempre manipolato. Ciò che sembra casa, lavoro, chiesa, può nascondere il dispositivo di controllo. Il mondo è un teatro. E le quinte sono armate.

Non meno importante è l’uso del colore. Il film è girato con una palette desaturata e retrò, che fonde gli anni Settanta con il presente. Questo effetto crea un senso di tempo sospeso. Non si sa mai in che epoca siamo. La storia potrebbe accadere ora o trent’anni fa. Questo è un altro simbolo del ciclo. Se non cambia niente, allora il tempo non passa. Si resta fermi. E l’estetica serve a creare questa impressione di immobilità sotto la superficie del movimento.

Infine c’è il simbolismo più sottile di tutti, quello della resistenza come gesto minimo. Non c’è rivoluzione nel film. Non c’è rivolta armata. C’è solo l’atto di scoprire, di indagare, di voler capire. I protagonisti non hanno superpoteri. Hanno solo la volontà di rompere il meccanismo. E questo è forse il messaggio più potente: il primo passo verso la liberazione non è la forza, ma la consapevolezza.

They Cloned Tyrone è quindi un’opera che usa la fantascienza non per immaginare il futuro, ma per parlare del presente. Un presente in cui la ripetizione è sistema, il controllo è interno, e la vera sfida è riuscire a pensare diversamente da come si è stati programmati.

They Cloned Tyrone non è un film che si dimentica. È un’opera che prende il genere e lo piega fino a farne uno specchio. Non predica, ma mostra. Non assolve, ma coinvolge. È cinema che racconta e denuncia, ma lo fa ridendo, ballando, insinuando dubbi invece che certezze.

È questo che lo rende così potente. È una storia che parla di cloni, ma che non fa altro che chiederti chi sei, e se sei davvero tu a scegliere cosa diventerai.