SMILE (2022): Il Male che Sorride
Il soggetto: trauma come maledizione
Diretto da Parker Finn, Smile nasce da un cortometraggio intitolato Laura Hasn’t Slept. E già lì c’era tutto: un’idea semplice, disturbante, ma potentemente metaforica. Nel film, la protagonista è la dottoressa Rose Cotter (Sosie Bacon), una psichiatra che assiste al suicidio traumatico di una paziente… che le sorride in modo allucinante prima di morire. Da lì, comincia un viaggio a spirale nella paranoia: Rose scopre che dietro quei suicidi c’è una catena di eventi, una sorta di “maledizione” che si trasmette come un virus psichico. Chiunque ne entri in contatto, comincia a vedere volti sorridenti e a vivere allucinazioni, fino a perdere il controllo e uccidersi in pubblico.
Ma il vero genio di Smile non è il jump scare (ben presenti e ben orchestrati), bensì la natura del male che rappresenta: il trauma non affrontato. La maledizione si attacca a chi è testimone del dolore altrui, si nutre della colpa, della vergogna e del rifiuto di chiedere aiuto. In questo, Smile è l’erede diretto di It Follows o The Ring, ma con un tocco personale e moderno.
Estetica e tensione
La regia di Parker Finn è chirurgica. La tensione è costante, l’atmosfera è tesa come una corda pronta a spezzarsi. Il sorriso, elemento familiare e rassicurante, viene qui stravolto in qualcosa di disumano: è il volto della follia che si traveste da serenità. Il film sa quando restare in silenzio e quando far esplodere l’orrore, e lo fa con una precisione che ha ricordato a molti il primo Jordan Peele.
Il finale: il terrore che non si ferma
Il film si chiude con un colpo di scena cupissimo. Non c’è catarsi, non c’è salvezza. La maledizione prosegue. Il messaggio è chiaro: il trauma, se ignorato, si propaga. E qui Smile smette di essere solo un horror ben fatto, e diventa quasi un’allegoria sociale. Una riflessione sull’isolamento psicologico in una società che finge di sorridere, ma nasconde mostri sotto la pelle.
SMILE 2 (2024): Il Ritorno del Male (e del Marketing Geniale)
Sequel diretto dallo stesso Parker Finn, Smile 2 riprende da dove il primo ci aveva lasciato: un mondo in cui il “sorriso del suicidio” è ancora in circolazione. Ma questa volta, la storia si espande.
Trama: la fama come veicolo del contagio
La nuova protagonista è una popstar di fama mondiale (interpretata da Naomi Scott) che comincia ad avere visioni terrificanti dopo un evento traumatico. In poco tempo, scopre di essere l’ultima destinataria della “catena”. Qui il film alza la posta in gioco: l’orrore non è più confinato in ambito privato o medico, ma entra nella cultura pop, tra social media, concerti, fanbase ossessive. Un’idea brillante, che aggiorna la mitologia del primo film e la intreccia con la malattia dell’esposizione costante, della performance continua. Un’era in cui anche il dolore deve essere vendibile.
Espansione dell’universo
Il secondo capitolo non si limita a replicare il primo: ne esplora le radici. Si comincia a intuire che la “creatura” dietro i sorrisi non è solo un concetto, ma qualcosa di antico, forse addirittura religioso o mitologico. Come accade spesso negli horror moderni di successo (vedi Hereditary o The Conjuring), anche qui si intravede la costruzione di un universo narrativo più grande, con regole, entità e potenziali spin-off.
Una regia più matura
Finn, con più budget e più consapevolezza, osa di più. Smile 2 è più spettacolare, ma non perde la cura psicologica del primo. La colonna sonora è più invadente, i giochi di montaggio più sperimentali, e l’estetica vira leggermente verso il videoclip disturbato, in linea con l’ambiente dello show business. Il tutto senza mai dimenticare la cosa più importante: farci stare a disagio per due ore. E funziona.
Il sorriso come simbolo del nostro tempo
Entrambi i film, presi insieme, raccontano una verità inquietante sul presente: viviamo in un’epoca in cui siamo costretti a sorridere. Sui social, sul lavoro, con gli amici. Ma sotto il sorriso può covare l’ansia, la depressione, il trauma. E se non li affrontiamo, ci divorano. Smile è un horror “sociale” senza esserlo in modo predicatorio. Ti inquieta, ti sbatte in faccia la sofferenza nascosta dietro i volti sereni. E lo fa senza sconti.
Smile e Smile 2 sono due esempi riuscitissimi di horror psicologico moderno. Dietro una premessa semplice — il sorriso che uccide — si nasconde una riflessione potente su dolore, trauma e comunicazione. Se il primo film era un colpo di genio contenuto e chirurgico, il secondo espande l’universo e apre le porte a un franchise che, se gestito bene, potrebbe diventare la nuova saga cult del terrore contemporaneo.
Il Sorriso: maschera sociale e orrore interiore
In Smile, il sorriso è una maschera, e non nel senso teatrale: è la rappresentazione di una società che ci vuole funzionali, performativi, felici a ogni costo. Chi sorride nel film lo fa perché è posseduto, non perché è felice. Quel sorriso fisso, teso, vuoto, è un grido che si maschera da tranquillità. È la finta serenità con cui ci si presenta al mondo mentre si sta crollando dentro.
Nel primo film, la dottoressa Rose è la classica professionista che “sta bene” perché deve stare bene. Vive una vita in apparenza controllata, ma nasconde un trauma (la morte della madre) mai elaborato. Il sorriso maligno che insegue Rose è, in fondo, il suo stesso riflesso: quello che ha imparato a mostrare per sopravvivere.
Nel secondo film, Smile 2, il sorriso viene trasferito al mondo dello spettacolo e dei social media: la protagonista è una popstar, figura pubblica per eccellenza, sempre sotto i riflettori. Il simbolismo qui è ancora più feroce: la sofferenza come spettacolo, la tragedia come contenuto. In un mondo dove anche la depressione può essere brandizzata, Smile 2 ci mostra cosa succede quando l’immagine diventa più importante della verità emotiva.
Il Trauma: contagioso come un virus
Altro elemento centrale: la maledizione si trasmette assistendo a un suicidio traumatico. Un’idea che ribalta il concetto di “possessione” classica: non sei scelto dal male perché sei debole o colpevole, ma perché hai visto troppo. Hai assistito a qualcosa di insopportabile, e il tuo cervello non può più “tornare indietro”.
Questa dinamica è una metafora fortissima per il trauma psicologico: una volta che ti entra dentro, non puoi ignorarlo. Ti perseguita. Il simbolismo è chiaro: il trauma si comporta come un’infezione. Se non lo elabori, lo trasmetti. L’orrore, in questi film, non è solo morire. È diventare il trauma, è causarlo ad altri. È vedere la tua sofferenza trasformarsi in un messaggio distruttivo.
In Smile 2, questo concetto si espande nel contesto della fama: la visibilità come moltiplicatore del contagio. Più sei esposto, più il dolore si propaga. È un’allusione brillante al modo in cui oggi il trauma può diventare virale: uno scandalo, un suicidio in diretta, una tragedia condivisa che diventa intrattenimento.
Il Pubblico: testimone forzato, colpevole passivo
Il suicidio rituale è sempre pubblico, e questa scelta è fondamentale. Le vittime sono costrette a morire davanti a un altro essere umano. Non per caso.
Il pubblico è parte integrante della maledizione. Come lo spettatore del film, anche i personaggi diventano testimoni involontari, e da testimoni diventano vittime. Questo è un simbolo della complicità passiva: chi osserva la sofferenza senza intervenire, chi vede il disagio ma lo ignora, lo internalizza. Il male si nutre del nostro silenzio.
Nel primo film, Rose è circondata da colleghi, amici, persino uno psicologo… ma nessuno la ascolta veramente. Tutti le dicono “sei solo stressata”, “dormi un po’”, “sei paranoica”. Il simbolo qui è devastante: la solitudine del malato mentale. In una società che minimizza la sofferenza, il trauma diventa invisibile, e quindi ancora più pericoloso.
Il Mostro: proiezione del Sé
La “creatura” che si manifesta alla fine del primo film — un essere mostruoso fatto di carne e volti impilati — è probabilmente il simbolo più esplicito della serie: il trauma come entità viva. È un mostro che si nutre delle emozioni represse, dei ricordi dolorosi, delle colpe mai confessate.
Questo essere, che entra dentro la protagonista e la costringe a uccidersi, rappresenta la perdita di sé, la fagocitazione della coscienza da parte della sofferenza. È ciò che accade quando non si ha più voce, più controllo, più speranza.
In Smile 2, la creatura sembra ancora più evanescente e adattiva, capace di prendere la forma del successo stesso, della fama, della visibilità. La sofferenza non solo si nasconde: si traveste da successo.
Le Luci e i Vetri: lo specchio del trauma
Elementi ricorrenti in entrambi i film sono le luci che tremolano e i vetri infranti o riflettenti. Non sono solo cliché visivi: sono frammentazioni della realtà.
Le luci instabili rappresentano la percezione che si distorce. Non puoi più fidarti di ciò che vedi o senti. Tutto è falsato, come nella mente di chi soffre di psicosi o depressione.
Gli specchi, invece, sono confini sottili tra il sé e l’altro. Spesso il mostro compare riflesso, ma non nella realtà. È un invito a riconoscere che il vero nemico non è esterno, ma interno. La lotta è sempre tra te e te stesso.
Il vero orrore è ignorare il dolore
Smile e Smile 2 usano il linguaggio dell’horror per parlare della cosa più reale che ci sia: la sofferenza non visibile. E lo fanno con un simbolismo che è insieme diretto e stratificato. Il sorriso non è solo un volto inquietante: è il simbolo di una società che ci vuole performanti, felici, “a posto”, anche quando stiamo crollando.
Il messaggio più spaventoso dei film è questo: se non affrontiamo il nostro dolore, lo trasmettiamo. Lo passiamo ai figli, agli amici, a chi ci ama. E il ciclo ricomincia.