Nel 2016, André Øvredal, regista norvegese noto per Trollhunter, firma con The Autopsy of Jane Doe un horror sorprendente. Intimo, claustrofobico, silenzioso. Il film prende un’ambientazione quasi banale—una sala autoptica—e la trasforma in un labirinto metafisico, un rituale dove ogni taglio sul corpo è una discesa nell’ignoto.
È uno di quei film in cui l’orrore cresce senza correre, in cui il terrore non esplode: si insinua.
Una giovane donna senza identità viene ritrovata sepolta parzialmente nel seminterrato di una casa dove è avvenuto un massacro. Il suo corpo è perfettamente conservato, senza segni esterni di violenza.
Il coroner Tommy Tilden e suo figlio Austin, che lavorano insieme in un obitorio privato, ricevono l’incarico di eseguire l’autopsia durante la notte.
Man mano che esaminano il corpo—lacerazioni interne inspiegabili, organi bruciati, tessuti cicatrizzati dall’interno, simboli occultisti nascosti sotto la pelle—capiscono che Jane Doe non è affatto una vittima qualunque. Qualcosa si risveglia nell’obitorio. E non ha intenzione di farsi sezionare senza reagire.
Il film si svolge quasi interamente all’interno della sala autoptica. Eppure non è mai statico. Il senso di oppressione cresce a ogni scoperta, ogni dettaglio anatomico diventa una pista verso l’orrore. La tensione è costruita con il ritmo, i silenzi, i piccoli rumori, il respiro di un corpo che dovrebbe essere morto.
Ogni strumento chirurgico, ogni lampada, ogni frigorifero diventa un possibile punto d’accesso al terrore.
1. Il corpo come archivio del male
Jane Doe è un palinsesto. Ogni ferita interna è un frammento di storia. Il suo corpo racconta secoli di persecuzioni, dolori, rituali. È un’anatomia della colpa collettiva.
2. L’eredità della stregoneria
Il film si collega alla tradizione della caccia alle streghe, ma lo fa in modo originale: Jane Doe non è nata malvagia. È il risultato della paura e dell’odio degli altri. L’orrore è ciò che le è stato inflitto, non ciò che ha scelto.
3. Il razionale contro il soprannaturale
Tommy rappresenta la scienza, il metodo, la logica. Ma nulla può spiegare ciò che trova. L’autopsia diventa un rituale di disvelamento: scientifico fuori, occulto dentro.
Øvredal dirige con sobrietà chirurgica. Niente jump scares gratuiti, nessun abuso di musica o effetti. Il terrore nasce dal dettaglio: un piede che si muove, una porta che si apre da sola, una radio che cambia stazione.
Il cadavere di Jane Doe—interpretato dalla modella e attrice Olwen Kelly—è una presenza silenziosa e inquietante. La sua immobilità è il vero motore del film: più è immobile, più il film si muove intorno a lei.
- Brian Cox, nei panni del coroner Tommy, regala una performance misurata, intensa, quasi paterna. Un uomo razionale che si ritrova a credere all’incredibile.
- Emile Hirsch, nel ruolo di Austin, è il figlio diviso tra amore, dubbio e terrore. La loro relazione dà spessore emotivo al film.
Insieme creano un piccolo dramma familiare sospeso nel vuoto, mentre intorno a loro la realtà comincia a dissolversi.
Il film si chiude senza dare tutte le risposte. E fa bene. Perché Jane Doe non è solo una vittima né solo una strega. È la somma dei traumi, delle paure e delle colpe proiettate sul corpo femminile attraverso i secoli. Non ci sono spiegazioni, solo l’eco di un male antico che non può essere dissezionato.
Anatomia di un capolavoro silenzioso
The Autopsy of Jane Doe è un horror atipico: costruito sul silenzio, sull’osservazione, sul dettaglio. È un film che mette a nudo non solo un corpo, ma anche il bisogno umano di razionalizzare ciò che non può essere spiegato.
Un gioiello dell’horror contemporaneo, che dimostra come bastino una stanza, un tavolo d’acciaio e un corpo per raccontare un’intera storia dell’orrore.