Quando DMZ arriva sul mercato nel 2005, Brian Wood ha già capito dove sta andando l’America. In un mondo post-11 settembre in cui la fiducia nel governo è in caduta libera e la polarizzazione politica cresce di giorno in giorno, Wood — con i disegni incisivi di Riccardo Burchielli — immagina una seconda guerra civile americana. Non un futuro remoto e fantascientifico, ma un domani così vicino da sembrare oggi, con le strade di New York trasformate in zona demilitarizzata. E in mezzo al caos, un giovane fotoreporter che scopre che la verità non è mai neutrale.
DMZ è molto più di un fumetto post-apocalittico urbano: è un reportage narrativo, un affresco politico, una dichiarazione d’intenti su cos’è la guerra quando non si combatte in trincea, ma tra i marciapiedi della propria città.
America spaccata in due
L’azione si svolge in un futuro prossimo, dopo che un secondo conflitto civile ha diviso gli Stati Uniti tra il governo ufficiale e le Forze Libere, un movimento secessionista. Nel mezzo, Manhattan è diventata una DMZ: zona demilitarizzata, una terra di nessuno evacuata, abbandonata e dimenticata dai media. Ma la verità è che Manhattan non è affatto vuota. Chi non ha potuto fuggire — i poveri, gli emarginati, i dimenticati — è rimasto a sopravvivere in un incubo urbanizzato dove la legge è una parola vuota.
L’ambientazione è potentissima. Non ci sono deserti alla Mad Max o città futuristiche da Blade Runner: c’è la nostra città, con i suoi ponti distrutti, i graffiti politici, le comunità che si autogestiscono, e la costante minaccia del fuoco incrociato. DMZ è il romanzo grafico del collasso sociale urbano.
Matty Roth, occhio e bersaglio
La storia segue Matthew “Matty” Roth, giovane giornalista embedded in una missione nella DMZ. Quando le cose vanno storte, si ritrova solo, senza supporto, costretto a restare tra le macerie. Invece di fuggire, decide di documentare la realtà. Ma da cronista esterno, Matty diventa sempre più coinvolto nel mondo che racconta. Perde l’innocenza, guadagna potere, prende decisioni discutibili. Diventa, in modo graduale e inquietante, parte della storia che voleva solo raccontare.
Matty è l’archetipo del testimone che diventa protagonista. Le sue scelte — spesso ambigue, a volte codarde, altre volte coraggiose — lo rendono uno dei personaggi più realistici mai apparsi in un fumetto politico. È una figura quasi Ellroyana, travolta dagli eventi e dalla propria vanità.
DMZ come allegoria politica
La forza di DMZ sta nel suo essere politico senza essere ideologico. Non c’è un “lato giusto” e un “lato sbagliato”: sia il governo degli Stati Uniti che i ribelli delle Forze Libere commettono atrocità, manipolano, mentono, uccidono civili. Ma non è un cinismo fine a sé stesso — è una diagnosi spietata di come il potere, in qualsiasi forma, degradi il senso dell’umano.
Wood usa Manhattan come microcosmo dell’America reale: ogni quartiere è una nuova micro-comunità, una filosofia sociale a sé. C’è il quartiere militarizzato, quello anarchico, quello religioso, quello utopico. Ognuno prova a sopravvivere come può. Ma nessuno è immune dal declino.
Stile visivo e impatto
I disegni di Riccardo Burchielli sono perfettamente in linea con il tono della serie. Spigolosi, sporchi, carichi di tensione urbana. Non cercano la bellezza, ma l’autenticità del caos. La colorazione (con contributi di Jeromy Cox) sottolinea il grigiore metallico di una città ferita, alternando toni smorti a esplosioni visive di violenza e passione.
Ogni tavola sembra rubata da un reportage di guerra, ogni volto segnato da qualcosa che è andato perso per sempre.
Un’opera profetica
Letto oggi, DMZ è inquietantemente attuale. La polarizzazione politica, la sfiducia nei media, il collasso delle istituzioni, la marginalizzazione dei poveri — sono temi che nel 2005 sembravano distopie, oggi sono il nostro TG della sera.
Il fumetto è anche una riflessione meta-narrativa sul ruolo del giornalismo. Matty Roth è il simbolo di una stampa che vuole raccontare la verità ma finisce per distorcerla, influenzarla, o esserne usata. In un’epoca dove il confine tra informazione e propaganda è sempre più labile, DMZ è un monito durissimo.
DMZ non è solo una grande storia, è un testamento morale. Ci ricorda che la guerra non è mai altrove: può arrivare tra le nostre strade, nei palazzi che conosciamo, negli occhi della gente che vediamo ogni giorno. È un’opera che non consola, non assolve, non idealizza. Ma obbliga a guardare.
Per chi ama le storie che sporcano le mani, che costringono a scegliere da che parte stare (o a rendersi conto che non esiste una parte pulita), DMZ è un’esperienza da fare. Con la mente aperta, e lo stomaco forte.
Viaggio tra gli archi narrativi di una guerra dimenticata
Lungo i suoi 72 numeri pubblicati tra il 2005 e il 2012, DMZ di Brian Wood e Riccardo Burchielli ha costruito una narrazione frammentata e stratificata, che riflette perfettamente il caos e la complessità del mondo che racconta. Non è una serie lineare nel senso tradizionale: è una raccolta di storie intrecciate, punti di vista molteplici e mini-epopee che si incastrano nella grande cronaca della seconda guerra civile americana. Analizzare DMZ significa quindi entrare nei suoi archi narrativi, ciascuno con una sua identità tematica e drammatica, ma tutti legati da un filo comune: la perdita dell’innocenza, collettiva e individuale.
On the Ground (numeri 1–5)
Il primo arco narrativo è un vero e proprio atto di fondazione. Matty Roth, giovane e inesperto assistente di un giornalista famoso, viene catapultato nella DMZ quando la missione mediatica a cui partecipa va in rovina. Da semplice spettatore, si trova improvvisamente bloccato a Manhattan, senza supporto né possibilità di fuga. È qui che sceglie di restare, di raccontare la verità dal cuore della guerra. L’arco introduce le dinamiche del conflitto, le zone franche, la popolazione dimenticata. È l’inizio di una discesa nel realismo brutale.
Body of a Journalist (numeri 6–12)
In questa seconda fase Matty diventa reporter a tutti gli effetti, cercando di intervistare un altro giornalista scomparso nella DMZ: Viktor Ferguson. Il cinismo del mondo dell’informazione esplode in tutta la sua ambiguità. Chi controlla la narrazione, controlla la guerra. Qui Wood affronta il tema della manipolazione mediatica e del giornalismo embedded, sollevando una questione che resterà centrale per tutta la serie: può esistere una verità imparziale in un mondo spaccato?
Public Works (numeri 13–17)
Un arco dedicato alla privatizzazione della guerra. Matty viene coinvolto con una compagnia di sicurezza privata che gestisce il controllo di alcune aree della DMZ. L’ambientazione cambia tono: da guerriglia urbana a corporazioni paramilitari. La guerra non è solo ideologica, è anche economica. Matty si sporca le mani per la prima volta, e noi lettori cominciamo a capire che non sarà un eroe nel senso classico.
Friendly Fire (numeri 18–22)
Uno degli archi più duri e controversi. Matty indaga su un massacro avvenuto nel distretto di Day 204. Le autorità negano, ma la verità che emerge è che i soldati americani hanno ucciso civili per errore o per vendetta. Il fumetto diventa qui un atto d’accusa contro l’insabbiamento militare e la cultura del silenzio. Questo arco segna una svolta nella carriera di Matty: non è più solo un osservatore, ma un attore consapevole nel gioco della verità.
The Island (numero 23)
Un singolo episodio ma potentissimo. Matty si rifugia su Roosevelt Island, dove una comunità pacifista ha creato un’oasi quasi utopica in mezzo alla DMZ. Ma anche qui, sotto la superficie, si celano segreti e fragilità. È un momento di respiro, ma anche di dubbio. Il mondo perfetto non esiste, nemmeno tra le rovine.
Blood in the Game (numeri 24–28)
Questo arco si apre con una domanda provocatoria: e se qualcuno volesse candidarsi a governare la DMZ?
Per quanto assurdo possa sembrare in un territorio devastato, disconosciuto da entrambi i governi, la politica torna a farsi strada. Non quella delle grandi ideologie, ma quella locale, opportunista, populista, in cui ogni fazione cerca di capitalizzare il caos per consolidare il proprio potere.
Il candidato fantasma: Parco Delgado
L’elemento centrale è la figura di Parco Delgado, ex gangster e attivista carismatico, che decide di candidarsi come leader della DMZ. Il suo personaggio è sfuggente: per alcuni è un eroe del popolo, per altri un demagogo con ambizioni totalitarie.
Ma Delgado è soprattutto un simbolo della democrazia come illusione: riesce a mobilitare le masse in una città che non ha leggi, che non è riconosciuta da nessun potere esterno. La sua campagna è orchestrata tra show, provocazioni e populismo urbano.
Matty Roth: complice o cronista?
Matty, inizialmente scettico, viene rapidamente risucchiato nella campagna politica. La sua fama, la sua penna, la sua capacità di accedere a ogni parte della DMZ fanno di lui un veicolo perfetto per la propaganda. Non ci mette molto a passare da giornalista indipendente a consulente mediatico de facto.
È in questo arco che Matty inizia a mentire consapevolmente, o almeno a non raccontare tutto, a manipolare le informazioni con uno scopo politico. E lo fa perché crede, forse ingenuamente, che Delgado possa rappresentare un “male minore”. Il passo falso è compiuto.
- Il potere dell’immagine: in una DMZ senza vere elezioni, senza Stato, la campagna elettorale di Delgado funziona perché crea un’immagine di potere. È la politica dell’apparenza, in cui la percezione vale più della sostanza.
- Populismo e carisma: Delgado è costruito come un mix tra Che Guevara e un boss di quartiere. Usa la rabbia del popolo, promette ordine e giustizia, ma il suo controllo passa per strutture paramilitari, intimidazione e culto della personalità.
- Fine del giornalismo: in questo arco Matty Roth smette di essere un reporter. È una figura pubblica, influente, manipolabile e manipolatrice. Le sue parole iniziano ad avere conseguenze politiche, reali, pesanti.
War Powers (numeri 29–34)
In questo arco Matty entra in contatto diretto con la leadership delle Forze Libere. La sua notorietà cresce, ma anche la sua compromissione. Inizia a essere usato come pedina, o peggio, come voce propagandistica. È il momento in cui il suo idealismo iniziale viene completamente sacrificato. L’informazione, ancora una volta, è strumento di potere.
Hearts and Minds (numeri 42–44)
Uno dei punti di rottura emotiva della serie. L’arco mostra come il cuore della popolazione civile venga continuamente strumentalizzato, e come anche le piccole comunità diventino bersagli o strumenti. Matty è ormai un personaggio controverso: i suoi reportage influenzano realmente la guerra, ma spesso in modi imprevisti o dannosi.
M.I.A. (numeri 46–49)
Matty scompare dalla scena. L’arco è narrato da altri personaggi e mostra come la DMZ continui a esistere anche senza di lui. È un momento di dislocazione narrativa che ricorda al lettore che il protagonista non è indispensabile, e che il conflitto ha una vita propria. Serve anche a rimettere in discussione le sue azioni precedenti.
Free States Rising (numeri 50–54)
Le Forze Libere si preparano a una grande offensiva. È un arco di tensione crescente, che prelude allo scontro finale. La serie torna a concentrarsi sul conflitto armato, ma con una consapevolezza nuova: tutti sono colpevoli, e l’eroismo non esiste più. Matty, tornato in scena, cerca di trovare una via di riscatto, ma il peso delle sue scelte precedenti lo segue come un’ombra.
The Five Nations of New York (numeri 55–59)
Manhattan è ormai divisa in veri e propri micro-stati. Ciascuno ha il proprio leader, le proprie regole, la propria ideologia. L’arco mostra un’umanità che tenta di ricostruirsi, ma ogni tentativo è destinato al compromesso o al fallimento. È un’esplorazione della frammentazione politica e del tribalismo urbano. Matty è sempre più marginale: è la città a diventare protagonista.
The Final Volume (numeri 60–72)
L’arco finale è un lungo epilogo amaro. Matty viene processato per le sue azioni. Non c’è una redenzione piena, né una condanna netta. Solo l’ammissione che ha partecipato a un gioco molto più grande di lui, e che ne è uscito sconfitto. Non c’è gloria, solo la stanchezza del ritorno. La guerra finisce, ma la ricostruzione non è certa. La serie si chiude con un tono malinconico, sospeso tra fine e attesa.
Conclusione
Gli archi narrativi di DMZ non raccontano solo una storia, ma una discesa graduale nella disillusione. Ognuno esplora un frammento della guerra contemporanea: la propaganda, l’informazione, il terrorismo, la gestione privata del conflitto, il collasso sociale, il tentativo di ricostruzione. La grandezza della serie sta proprio nel suo mosaicare la realtà, pezzo dopo pezzo, fino a comporre un’immagine che assomiglia terribilmente al nostro presente.
Matty Roth
Matthew Roth è il protagonista indiscusso di DMZ. Inizia come un ragazzo qualunque, un assistente giornalista con poca esperienza e molte illusioni, catapultato nella Manhattan assediata da una missione fallita. Bloccato nella DMZ, fa una scelta inaspettata: restare. Con una piccola attrezzatura e molto coraggio, decide di raccontare ciò che vede.
Ma col tempo Matty cambia. Quella che era una vocazione idealista diventa un percorso torbido. Da testimone diventa attore. Da cronista imparziale a strumento del potere. La sua trasformazione è il cuore della serie: un viaggio morale in cui ogni scelta, anche quella apparentemente giusta, ha un prezzo altissimo. Matty è uno dei protagonisti più umani mai scritti in un fumetto: fallibile, ambizioso, a volte egoista, ma sempre drammaticamente autentico.
Zee Hernandez
Zee è una delle prime persone che Matty incontra nella DMZ. Ex studentessa di medicina, è rimasta nella zona per aiutare chi non ha potuto o voluto fuggire. È una presenza costante, coraggiosa, intransigente. Mentre il mondo crolla intorno, Zee cura, ascolta, protegge. Non cerca il potere, non vuole la ribalta: è l’eroina silenziosa della serie.
Rappresenta un punto di riferimento morale per Matty. Dove lui vacilla, lei resiste. Dove lui gioca con il fuoco del potere, lei preferisce rimanere al fianco della gente comune. È una donna che incarna la resilienza vera: quella che non cerca la gloria, ma si misura con la fatica quotidiana della sopravvivenza.
Wilson
Wilson è il sovrano non ufficiale di Chinatown, un ex membro delle Triadi che ha saputo reinventarsi come leader pragmatico e rispettato. Il suo quartiere è uno dei pochi luoghi relativamente stabili della DMZ, e questo è merito della sua gestione ferrea, ma intelligente.
È un personaggio ambiguo: a tratti protettivo, quasi paterno; in altri momenti, freddo e calcolatore. La sua lealtà verso Matty è reale, ma non è mai disinteressata. Con Wilson, Brian Wood costruisce una figura che riflette il lato oscuro della stabilità: a volte per mantenere la pace bisogna accettare il crimine come strumento di ordine.
Parco Delgado
Parco Delgado è il volto del populismo nella DMZ. Si presenta come un leader carismatico, figlio del Bronx, con un linguaggio diretto e una retorica accattivante. Raduna consensi, fonda un governo provvisorio, si autoproclama rappresentante della volontà popolare.
Ma dietro il discorso rivoluzionario, Delgado è un politico consumato. Sfrutta la rabbia della gente, manipola la stampa, gioca al potere con abilità da veterano. Con lui, la serie mostra quanto sia sottile la linea tra liberatore e tiranno. E quanto la speranza, in tempi disperati, possa essere facilmente corrotta.
Kelly Connolly
Kelly è una giornalista vera, preparata, determinata, e in un certo senso ciò che Matty avrebbe voluto essere. Quando entra nella DMZ, lo fa con occhi lucidi, meno ingenui, più allenati a capire come funziona davvero l’informazione. Il suo arrivo scompiglia la narrazione, perché introduce una voce esterna capace di leggere Matty dall’esterno e metterlo in discussione.
Diventa anche una figura sentimentale, ma non si limita al ruolo di “interesse amoroso”: Kelly è una professionista che fa le domande giuste, anche quando fanno male. È una coscienza critica, non solo per Matty, ma anche per il lettore.