C’è un momento in cui chi spia diventa ciò che osserva. In cui la distanza si sgretola. In cui la missione professionale si trasforma in un viaggio interiore. The East ruota tutto intorno a questo slittamento. Un thriller che si presenta con la tensione del cinema d’indagine, ma che si trasforma lentamente in una riflessione sull’identità, la colpa e la necessità di scegliere un lato, non solo per dovere ma per coscienza.
La protagonista è Sarah Moss, interpretata con rigore e misura da Brit Marling. È un’ex agente dell’FBI ora reclutata da una compagnia di intelligence privata, incaricata di infiltrarsi in un gruppo eco-terrorista noto come The East. Il gruppo, formato da giovani idealisti radicalizzati, prende di mira le grandi multinazionali che hanno inquinato, avvelenato, distrutto. I loro attacchi non sono casuali. Sono precisi, mirati, vendicativi. Occhio per occhio. Giustizia attraverso la paura.
Sarah, sotto copertura, penetra nel gruppo. Entra nella loro casa. Nella loro routine. Nelle loro dinamiche affettive e psicologiche. Ed è qui che il film si fa sottile. Perché il gruppo non è quello che lei si aspettava. Non sono mostri. Non sono fanatici. Sono umani, feriti, determinati. Alcuni guidati da rabbia, altri da fede. Tutti uniti dalla consapevolezza che il mondo, fuori, è avvelenato da chi lo governa.
Il leader carismatico del gruppo, Benji, interpretato da Alexander Skarsgård, incarna questa ambiguità. È affascinante, calmo, ma anche inquietante. Guida senza imporsi. Seduce senza sedurre. Sarah si avvicina a lui, ma non è attrazione fisica. È qualcosa di più profondo. È il riconoscimento di un dolore comune, di una frattura che il sistema non sa sanare.
Il cuore del film è qui. Sarah non cambia idea in un colpo solo. È un processo lento, fatto di domande, gesti, momenti di dubbio. La sua trasformazione è credibile perché è sofferta. Ogni missione del gruppo – chiamata jam – porta alla luce una verità scomoda. Farmaci che uccidono. Acque contaminate. Dirigenti impuniti. E ogni verità è un chiodo in più nel muro della sua identità.
Il film non giustifica il terrorismo. Ma lo comprende. Non assolve le azioni del gruppo. Ma le guarda da vicino. È qui che The East si distingue. Invece di dividere il mondo in buoni e cattivi, mostra come le strutture che consideriamo solide siano fondate su inganni taciuti. E come l’etica, spesso, si riduca a una questione di distanza: se non vediamo il danno, non lo sentiamo.
La regia di Batmanglij è sobria, quasi invisibile. Lascia parlare gli spazi, i silenzi, gli sguardi. La comunità del gruppo vive in case occupate, si lava nei fiumi, mangia in cerchio. Tutto è rituale, tutto è coesione. Ma anche qui non c’è idealizzazione. Le contraddizioni emergono. Le tensioni interne scoppiano. I fantasmi personali, come quello di Izzy, interpretata da Ellen Page, rivelano le crepe di ogni utopia.
Il finale è elegante e potente. Sarah prende una posizione. Non urla, non si vendica. Sceglie. E nel farlo, tradisce tutti. Il sistema. Il gruppo. Forse anche sé stessa. Ma forse no. Forse è proprio lì, nel tradimento dei ruoli, che si scopre la verità. Non si può essere spettatori neutrali di un mondo corrotto. Prima o poi, bisogna decidere a chi credere.
The East è un film politico, ma non ideologico. Morale, ma non moraleggiante. Parla dell’oggi con la voce di chi ha dubbi, non certezze. È un’opera sulla disobbedienza come gesto di umanità, sulla possibilità di passare dall’altra parte non per vendetta, ma per coscienza. E nel mondo post Snowden, post Wikileaks, post ogni verità negata, è forse uno dei film più silenziosamente rilevanti degli ultimi anni.
Il film di Zal Batmanglij, scritto insieme a Brit Marling, non si limita a raccontare una storia d’infiltrazione e idealismo radicale. È costruito come un codice. Ogni gesto, spazio, abito, rituale contiene un doppio livello di lettura. È una pellicola fatta di segni. Di silenzi. Di messaggi cifrati. E proprio come la protagonista, anche lo spettatore deve imparare a “leggere” da dentro.
La casa nel bosco: il ritorno al grembo
Il rifugio del gruppo The East non è solo un nascondiglio. È un simbolo. È una casa rurale, isolata, immersa nella natura, lontana dalle città, dal cemento, dalla tecnologia. Qui tutto è basico, essenziale, condiviso. Dormono vicini, mangiano insieme, si muovono come un corpo unico. Questa scelta non è solo logistica: rappresenta il rifiuto dell’individualismo moderno, della separazione, dell’io isolato. È un ritorno a un’idea di comunità primitiva, quasi uterina. La casa è un grembo. Chi entra viene spogliato del proprio ruolo, del proprio nome, della propria funzione sociale. Solo così si rinasce.
Il cibo condiviso e il pasto rituale: la comunione sovversiva
Una delle scene più emblematiche è quella del pasto, dove tutti i membri mangiano con le mani imbavagliati, legandosi alle mani altrui. È una scena disturbante, ma carica di senso. È un rituale di fiducia estrema. Nessuno può nutrirsi da solo. Si dipende dagli altri. Si perde il controllo, si abbatte la barriera del sé. È anche una rappresentazione visiva della vulnerabilità accettata. Il pasto diventa eucaristia laica, segnale di appartenenza a un corpo collettivo. È il contrario esatto dell’alimentazione iper-personalizzata dell’Occidente contemporaneo. Qui si mangia come si vive: insieme, oppure non si mangia affatto.
L’acqua e il fiume: lavarsi per rinascere
L’acqua, nel film, compare più volte. Non è mai pulita, né invitante. Ma è sempre centrale. I membri del gruppo si lavano nei fiumi, si immergono senza paura, spesso in silenzio. Ogni bagno è una purificazione, ma anche un ritorno all’elemento originario. L’acqua come passaggio. Come luogo di passaggio tra il mondo di prima (quello delle multinazionali e del denaro) e quello nuovo, anche se instabile. Sarah stessa, dopo ogni immersione, sembra più lucida. Più consapevole. Il fiume è un confine. Lavarsi è abbandonare la vecchia pelle.
La benda e la cecità temporanea: fiducia e perdita del controllo
Durante una delle prime prove di ingresso, Sarah viene bendata. Questo gesto ricorre spesso nel film. Bendare significa rinunciare alla vista. Alla razionalità. È un atto di sottomissione, ma anche di passaggio. Chi si lascia bendare si affida. È come dire: vedo con gli occhi degli altri. È un simbolo potentissimo della transizione tra due mondi. È solo quando Sarah accetta di non vedere che inizia a capire. Perché il sapere, in The East, non è intellettuale. È esperienziale. Passa attraverso il corpo. Il tatto. La paura.
I vestiti: la spogliazione dell’identità
All’inizio del film Sarah veste abiti sobri, professionali. È l’agente. L’infiltrata. Poi, lentamente, cambia. Inizia a indossare vestiti comuni, larghi, usati. Si confonde. E infine è come gli altri. Questo passaggio visivo è chiaro: per essere accolta, devi perdere l’armatura. I vestiti sono simboli sociali. Quando li lasci andare, lasci andare anche il ruolo che ti è stato assegnato. E quando Sarah si ritrova in bilico tra due mondi, il suo look è un ibrido, a metà. Perché anche lei, in fondo, è un simbolo in movimento.
I jam: vendetta o giustizia rituale?
Ogni azione del gruppo è chiamata jam. Non attentato, non azione diretta. Jam, ovvero inceppare, disturbare, bloccare un sistema. Questo uso del linguaggio non è casuale. Il gruppo non vuole distruggere. Vuole sabotare il flusso, creare attrito, rompere l’automatismo. Ogni jam è una messa in scena, un contrappasso perfetto. Il CEO che ha causato la paralisi viene costretto a provarla. La farmacista che ha nascosto dati viene avvelenata con il proprio prodotto. Sono riti di inversione, che ricordano la giustizia mitica. Non c’è perdono. Ma nemmeno sadismo. Solo specchi.
La muta e la parola negata
Il personaggio della ragazza muta, quella che salva Sarah all’inizio, è simbolo puro. È la verità che non parla. È la coscienza che agisce ma non si impone. Tutto il film è attraversato da domande su cosa si può dire, cosa si può fare, cosa si deve nascondere. Lei è lì. Presente. Centrale. Ma non spiega. Non discute. È azione pura. È il nucleo del gruppo, ma anche la sua ombra. Una figura che tiene insieme la dimensione morale e quella sacrificale.
The East è dunque un film costellato di piccoli riti. Di linguaggi non verbali. Di oggetti che parlano. Non si limita a raccontare una storia. Crea un sistema di simboli che replicano il funzionamento del potere che vuole combattere. Lo smaschera e lo riformula. Ma senza prediche. Solo attraverso l’esperienza.