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MaXXXine rimescola porno, violenza e anni Ottanta per raccontare una storia di ribellione

Gabriele Niola

MaXXXine, dei tre film, è il più ritmato: non ha la brutalità del primo né le ambizioni autoriali del secondo, in cui Mia Goth recitava un lungo monologo senza stacchi di eccezionale potenza, ma è più spensierato in superficie, replica estetica e stilistica dei film degli anni ‘80, tagliato per piacere ma con sotto le medesime idee. Un’attrice, un investigatore, un predicatore e l’aspirazione di uscire dal porno ed entrare nel cinema grazie a un ruolo in un film di serie B diretto da una regista dalle grandi ambizioni. Nel mezzo ci si mette un serial killer (come già detto: è tutto in stile anni ‘80).

In linea con gli altri film sono le aspirazioni delle donne che le opprimono. Sia Maxine che Pearl sognano di essere parte dello spettacolo, e questa è la loro condanna, perché negli anni in cui vivono significa essere soggette agli uomini. Tuttavia, questa trilogia è anche determinata a non mostrare le donne come vittime (come fanno gli slasher, cioè i film in cui vengono perseguitate da serial killer) ma come macchine omicide che trasformano la violenza psicologica, verbale e sociale che subiscono in violenza con coltelli e forconi.

E poi non c’è la nostalgia! Dei molti film e delle serie che in questi anni stanno raccontando, in modi diversi, gli anni ‘80, questo è nettamente il meno interessato al periodo in sé, cioè il meno interessato alle canzoni dell’epoca, alle capigliature, agli accessori, alle tecnologie, ecc. Il punto di MaXXXine è la brutalità e la possibilità per una donna di ribellarsi e gli anni ‘80 servono perché in quel periodo il porno (che è l’esibizione della sessualità) ha avuto l’ultima incarnazione di successo, per l’appunto quella del mercato VHS. Non a caso ci sono due modelli di ribellione nel film: quello di Maxine, la protagonista, che ha vissuto esperienze terribili nel primo film e qui è diversa, con uno sguardo spietato e non disposta a fermarsi davanti a nulla; e quello della regista del film per il quale viene scritturata (interpretata da Elizabeth Debicki) che invece fa la sua ribellione dall’interno, cercando di cambiare le cose attraverso un film.

E poi c’è Kevin Bacon, detective smargiasso che le prende continuamente, masticato dal cinema noir moderno, un personaggio esterno all’industria del cinema che tuttavia sembra uscito da un film. Indaga, dovrebbe scoprire cose, ed è parte del sistema che opprime la protagonista. È lui a cui tocca la parte più inutile della storia, che poteva tranquillamente essere tagliata. Anche stavolta il punto di tutto è Mia Goth. Quando entra in azione, quando mette in relazione un corpo truccato e vestito per essere quello di un’attrice porno, con la violenza e il potere ribelle, tutto ha un senso. Perché quello è ciò che differenzia MaXXXine dai film che la sua trama racconta, non avere un’attrice in un ruolo protagonista ma raccontare una storia in cui sono le donne a determinare il proprio destino.

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MaXXXine, la recensione: un salto negli anni ’80 per chiudere la trilogia di X – BadTaste

Gabriele Niola

Non è un horror ruvido nello stile di Non aprite quella porta e non è una storia gotica come Pearl. In accordo con la sua ambientazione anni ’80 MaXXXine è un giallo italiano, anzi l’imitazione americana di un giallo italiano, una storia di tacchi e coltellacci, ricamata di capelli cotonati e rossetti, luoghi bui dove non si dovrebbe stare e esplosioni di violenza. Tuttavia, è il terzo capitolo della saga di Pearl e Maxine, la quale dopo aver partecipato a un film porno conclusosi in carneficina, si ritrova nella Los Angeles degli anni ’80 come attrice porno di successo, determinata a fare il salto nel cinema mainstream.

Per gran parte del tempo, questa storia sembra uno slasher senza omicidi, più preoccupato di aderire ai generi della sua epoca che alla sua epoca stessa. Ne presenta tutti i luoghi comuni e le caratteristiche, ma trattiene il coito dell’omicidio mentre introduce i personaggi attraverso le aspirazioni della sua scream queen, Maxine, che è così ambiziosa che forse parteciperà a un film di serie B con una regista altrettanto ambiziosa, in una storia di persone ambiziose. Del resto questo è ciò che Ti West ha raccontato in questi tre film su spettacolo, sesso e violenza: il modo in cui il desiderio di entrare nel mondo dello spettacolo attira prevaricazione e sopruso sessuale, che i suoi personaggi trasformano in sangue ed efferatezze per esplicitarne (a nostro beneficio) la natura violenta.

X, Pearl e MaXXXine appartengono a generi diversi ma sono tutti collocati nel medesimo punto dello spettro che esiste tra cinema commerciale e autoriale, li uniscono non tanto le trame e non necessariamente i personaggi, ma più il tono e il ritmo. Non è una trilogia infallibile (X – A Horror Story non era eccezionale), ma almeno godibile, troppo schiacciata sul primo livello di lettura per essere davver un elevated horror, ma abbastanza sofisticata per fare bene cinema escapista con la testa sulle spalle. Insomma, non è Kevin Bacon agghindato come Jack Nicholson in Chinatown per suggerire le note da noir losangelino (tutte concentrate nel finale e non proprio indispensabili) che impressiona, né il fatto che egli stesso parli di recitare in una sorta di momento metacinematografico, ma (povero lui) impressiona più il fatto che sembra appartenere a un altro film ed è totalmente fuori posto.

È il destino di Ti West: nei suoi film inserisce spesso qualcosa di ottimo, ma non ha la costanza, o forse solo il gusto sufficiente, per mantenere lo stesso livello per tutto il minutaggio. Qui, per esempio, l’ambientazione e lo spunto sono teoricamente perfetti (l’era del porno su VHS è l’ideale per chiudere la trilogia), l’evoluzione di Maxine è impeccabile e soprattutto lo è il finale, con lo svelamento del villain che incarna in un solo personaggio spettacolo, bigottismo, repressione sessuale e violenza (non era facile). Però, poi si perde a lungo, non ha la coerenza compatta del cinema di genere che vorrebbe emulare e sembra non essere un grande fan degli slasher, dei gialli italiani o degli horror di cui parla, ma più qualcuno che ha capito che sono buoni argomenti per un film di successo.